Emarginato e insultato in ufficio: il dipendente pubblico ha il diritto al risarcimento del danno alla dignità personale
L’offesa alla dignità personale (tutelata dalla Costituzione ed imprescindibile al vivere sociale) è già ragione di danno all’individuo, come tale da risarcire, una volta superata la cosiddetta soglia minima di tollerabilità

A fronte di comportamenti offensivi verso la persona, comportamenti consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno alla dignità personale. Questo il principio fissato dai giudici (ordinanza numero 25114 del 18 settembre 2024 della Cassazione), i quali, chiamati a prendere in esame il contenzioso tra un Comune e un suo dipendente, aggiungono che il lavoratore maltrattato non deve fornire ulteriori prove in merito ai profili pregiudizievoli delle condotte subite, e precisano che in questa ottica si prescindere dal ricorrere di eventuali altri danni. Ciò anche perché l’offesa alla dignità personale (tutelata dalla Costituzione ed imprescindibile al vivere sociale) è già ragione di danno all’individuo, come tale da risarcire, una volta superata la cosiddetta soglia minima di tollerabilità. Rilevanti i dettagli della complessa vicenda. Nello specifico, in una prima fase sono stati accertati i comportamenti mobbizzanti (nel periodo 1994-2004) di un Comune nei confronti di un dipendente, che, poi, ha agito nuovamente a livello giudiziario per i comportamenti ed i danni da lui subiti in epoca successiva al 2004 e fino alle sue dimissioni, avvenute nel 2007. Chiarissimi i fatti, ossia emarginazione e vessatorietà in ambito lavorativo, manifestatisi attraverso l’assenza di incarichi, la destinazione ad ambienti di lavoro squallidi (senza computer e senza mobilio) e le offese ricevute da parte di un collega (che disse di non volere accompagnarsi con lui neanche per un caffè) e del direttore generale (che lo apostrofò come “pezzo di merda”). Logico, secondo i giudici, ipotizzare il danno alla dignità personale del lavoratore. Palese, difatti, la portata mobbizzante dell’assenza di incarichi e dell’assegnazione di un ufficio degradante, così come dell’avere la pubblica amministrazione tollerato che i colleghi si manifestassero con atteggiamenti emarginatori verso il dipendente, senza dimenticare, poi, la frase pronunciata dal direttore generale dell’ente locale. A fronte di comportamenti così palesemente spregiativi della persona, non può dirsi, chiosano i giudici, che un’offesa alla dignità della persona, in quanto tale e come lavoratore, necessiti di ulteriori allegazioni per riconoscere un adeguato risarcimento.